Non siamo soli contro la pandemia, il messaggio del vescovo di Taranto
Pasqua di Risurrezione. Vorrei avanzare con l’annuncio cristiano in tutta la sua interezza e coraggio. Siamo in un campo di battaglia, e purtroppo l’Italia e il Mondo piangono decine di migliaia di morti. Non voglio essere una voce fuori dal coro, ma noi cristiani, non possiamo ripetere semplicemente: «andrà tutto bene» come una sorta di mantra collettivo. Dobbiamo penetrare con l’intelligenza della fede ciò che sta accadendo. Questo contagio ci sfida e sfida tutta l’umanità con qualcosa che non avevamo previsto, che ci sfugge, che ci fa soffrire con il dolore dei nostri fratelli e sorelle morti. Con i tanti contagiati in Italia e nel mondo, con la paura che possa accadere anche a noi. Tutto è precario e incerto. Anche la tecnica e l’economia sono state sorprese. Cosa rimane della nostra vita? Certo, il desiderio di riprenderci, di superare questa circostanza, ma segnati dall’esperienza della fragilità. E chi prenderà a cuore la mia umanità? E tutti quelli che non sono più, che non hanno resistito al virus? Chi ci salva in questa vita e quando la vita muore?
In questa situazione ci viene incontro il mattino di Pasqua, l’esperienza della Resurrezione che Maria Maddalena, Giovanni e Pietro hanno fatto. Una vita nuova in questa vita; in questa vita che muore qualcosa che non muore. Perché Pietro, Giovanni, la Maddalena sono morti, ma in loro è entrato un qualcosa che non è morto, che si illumina di eternità. Questo qualcosa è cominciato con Gesù che risorge e poi è continuato nel gruppo di coloro che lo seguivano, uomini e donne.
Non si tratta di una filosofia, di un discorso astratto, ma di una esperienza viva presente nella compagnia dei credenti. Qualcosa di nuovo fa irruzione laddove noi non abbiamo nessuna risorsa umana per risolvere molti problemi della nostra vita e il problema della morte. Dobbiamo ammetterlo: in noi questa risorsa non c’è, come non c’è la capacità di superare questo vuoto. Ma poi all’improvviso ci accade qualcosa e si fa presente qualcuno che mi ama e che accoglie anche questa incapacità. Un amore più grande che ci raggiunge come è accaduto ai discepoli di Gesù che sono diventati i suoi primi amici. Noi abbiamo il presentimento di vincere la morte. Come quando perdiamo i nostri cari. Sentiamo che non può morire tutto il bene che ci hanno voluto; ma sentiamo anche che non è giusto che a Bergamo tutte quelle bare portate dai camion dell’esercito finiscano nel nulla, senza l’affetto dei parenti e senza una benedizione. C’è in noi questo presentimento di un di più che non muore che poi la vita frenetica ci fa dimenticare, e molte volte cerca di occultare.
La Comunità degli amici di Gesù esiste per non farci dimenticare, per non farci disperdere nell’attivismo che nasconde il nulla. E lo fa comunicandoci la presenza di uno che ha preso sul serio l’amore dei nostri cari, salvandolo in una vita che non muore più. La comunità di coloro che hanno seguito Gesù, questa amicizia che contiene il Risorto è la Comunità cristiana, come amicizia che con tutti i suoi limiti contiene il Risorto. «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Si tratta di una amicizia che comunica la Pasqua e che sente di poter dialogare con tutti. Come ha fatto papa Francesco portando il 27 febbraio scorso il dolore del mondo in quella piazza San Pietro vuota, ai piedi del Crocifisso e mostrando il Santissimo ha detto a noi che siamo nella tempesta: «Con Lui a bordo non si fa naufragio». È il brillare di una speranza che fa i conti anche con la realtà più dura. Francesco lo ha imparato dalla nonna, dalla mamma, dal papà, dai suoi educatori, da un popolo che gli ha comunicato la presenza del Risorto che parla alla vita con una voce diversa da tutte le altre.
Tutto ciò non risolve il problema del coronavirus e del dolore, delle perdite di vite, che sta causando, ma è diverso il modo con cui stiamo in questa circostanza non più come orfani; il Signore infatti ci ha detto: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18), e ci sono in mezzo a noi tante testimonianze della sua presenza. la pasqua non ci chiude in un gruppo ristretto, ci fa valorizzare chiunque è vicino a noi. Ho messo a disposizione dei medici di pneumologia dell’ospedale Moscati di Taranto una parte del Seminario perché potessero riposarsi dai turni massacranti senza dover tornare alle loro case lontane. Mi hanno risposto con una gratitudine immensa. In tutte le parrocchie ci sono i volontari della Caritas e di altri movimenti che collaborano con le istituzioni per distribuire cibo e materiale di igiene alle lunghe file di bisognosi. Ci sono tante persone di buona volontà, e di ogni credo che sono segno della vittoria sulla paura, sulla chiusura del cuore e sulla indifferenza.
Il nostro popolo non ha potuto quest’anno fermarsi a contemplare i Misteri della passione del Signore; non ha potuto incontrare nella lunga notte del pellegrinaggio lo sguardo della Madre Addolorata che confortava tutte le nostre incertezze. Per giunta in questi giorni siamo stati privati di una cosa essenziale che davamo per scontata, siamo stati privati della comunità. Cosa abbiamo chiesto alla Santa Madre di Dio? Un pizzico di fede, quello sufficiente per spostare la montagna, per guardare oltre e per non essere inghiottiti dalla notte, quello per ritrovare la via, il segno di orientamento che ci permetta di non soccombere, ma di proseguire il nostro cammino illuminati dal suo amore e dalla Risurrezione di suo Figlio. Anche attraverso la mediazione dei video abbiamo ascoltato attraverso la voce del papa, dei vescovi, dei sacerdoti il grande annuncio della vita che ha vinto la morte. Non come una favola, ma come una realtà offerta a ciascuno di noi: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea” (Mt 28,7).
Nella Galilea della nostra infida pandemia non siamo soli.